Corte di Cassazione Sez. Terza Civ. – Sent. del 20.04.2012, n. 6283
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l’Amministrazione finanziaria non può essere chiamata a rispondere del danno eventualmente causato al contribuente sulla base del solo dato oggettivo della illegittimità dell’azione amministrativa, essendo necessario che la stessa, nell’adottare l’atto illegittimo, abbia anche violato le regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, che costituiscono il limite esterno della sua azione.
Pertanto non è sufficiente l’obiettiva illegittimità del comportamento della P.A. (nel caso di specie della pretesa tributaria), ma occorre che tale illegittimità sia connotata da un quid pluris, che viene identificato nella violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione. Del resto, tutte le volte che l’azione giudiziaria viene basata sull’art. 2043 c.c. occorre necessariamente verificare non solo che la condotta abbia cagionato l’evento e che si sia verificato un danno – conseguenza, ma anche che essa sia qualificata dall’elemento soggettivo del dolo o della colpa.
Questa stessa sezione ha avuto modo di affermare (Cass. n. 22508 del 2011) che, in tema di responsabilità civile della P.A., l’ingiustizia del danno non può considerarsi in “re ipsa” nella sola illegittimità dell’esercizio della funzione amministrativa o pubblica in generale, dovendo, invece, il giudice procedere, in ordine successivo, anche ad accertare se: a) sussista un evento dannoso; b) l’accertato danno sia qualificabile come ingiusto, in relazione alla sua incidenza su di un interesse rilevante per l’ordinamento (a prescindere dalla qualificazione formale di esso come diritto soggettivo); c) l’evento dannoso sia riferibile, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei criteri generali, ad una condotta della P.A.; d) l’evento dannoso sia imputabile a responsabilità della P.A., sulla base non solo del dato obiettivo dell’illegittimità del provvedimento, ma anche del requisito soggettivo del dolo o della colpa.
La questione che ha originato il ricorso è già stata ripetutamente indagata da questa Corte, il cui orientamento è ormai consolidato nel ritenere (confronta, per tutte, Cass. Sez. III, n.5120 del 2011) che l’attività della P.A., anche nel campo della pura discrezionalità, deve svolgersi nei limiti posti della legge e dal principio primario del “neminem laedere”, di cui all’art. 2043 c.c.; è, pertanto, consentito al giudice ordinario accertare se vi sia stato, da parte della stessa P.A., un comportamento doloso o colposo, che, in violazione della norma e del principio indicati abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo. Infatti, stanti i principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost., la P.A. è tenuta a subire le conseguenze stabilite dall’art. 2043 c.c., ponendosi tali principi come limiti esterni alla sua attività discrezionale.
Orbene, la sentenza impugnata è conforme a tale orientamento, atteso che il Tribunale ha testualmente affermato che “nel semplice fatto di avere richiesto un tributo non dovuto dal contribuente la responsabilità non è in re ipsa, deve accertarsi se l’Agenzia delle entrate non si è attenuta ai criteri di imparzialità, correttezza e buona amministrazione”.
.2.1 – Merita, tuttavia, di essere corretta l’affermazione del Tribunale circa il carattere facoltativo dello sgravio in sede di autotutela, poiché essa contrasta con il sopra enunciato (peraltro riconosciuto anche dalla sentenza impugnata) dovere della P.A. di conformarsi alle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione.
È evidente che le predette regole impongono alla P.A., una volta informata dell’errore in cui è incorsa, di compiere le necessarie verifiche e poi, accertato l’errore, di annullare il provvedimento riconosciuto illegittimo o, comunque, errato. Non vi è, dunque, spazio alla mera discrezionalità poiché essa verrebbe necessariamente a sconfinare nell’arbitrio, in palese contrasto con l’imparzialità, correttezza e buona amministrazione che sempre debbono informare l’attività dei funzionari pubblici.
Questo principio vale anche allorché il contribuente – compiendo una scelta di strategia difensiva il cui esito eventualmente negativo non può che imputare a se stesso – abbia lasciato scadere il termine utile per impugnare il provvedimento avanti alla Commissione Tributaria, giudice competente ad accertarne l’illegittimità e, quindi, sia stato costretto ad affidarsi all’autotutela della P.A..
L’errore in cui è incorso il Tribunale non comporta l’annullamento della sentenza, ma soltanto la correzione della sua motivazione, in quanto in concreto l’Agenzia delle Entrate ha emesso il provvedimento di sgravio.
.2.2 – La sentenza impugnata non può essere condivisa neppure allorché dichiara non configurabile il ritardo nell’emissione del provvedimento in autotutela a seguito della mancanza di un termine normativamente stabilito. L’obbligo per la P.A. di agire nel rispetto delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione impone il riconoscimento in tempi ragionevoli del diritto del contribuente, anche quando, come rilevato dal Tribunale, non sia previsto uno specifico termine per l’adempimento. Spetta, dunque, al giudice di merito stabilire, volta per volta e considerando la situazione concreta (ad esempio: il numero di “pratiche” cui l’ufficio deve far fronte, la loro trattazione in ordine cronologico, il grado di complessità dell’accertamento, ecc.) se il tempo impiegato dalla P.A. sia o meno rispettoso delle regole indicate.
.2.3 – L’incidenza nella specie di tale errore va riscontrata con riferimento alla presenza, a causa del ritardo, di un danno ingiusto imputabile alla P.A., che, comportandone il risarcimento, sarebbe idoneo a configurare l’indispensabile interesse processuale di parte ricorrente. Ciò in quanto il Tribunale, valutando il fatto, non ha ravvisato elementi di colpa nella mera emissione del provvedimento impositivo poi annullato in autotutela a seguito del ricorso presentato dal commercialista incaricato dal contribuente, che aveva, dunque, sopportato il conseguente esborso. In primo grado il contribuente aveva chiesto e ottenuto dal Giudice di Pace la condanna dell’amministrazione a rimborsare la somma corrisposta al commercialista cui si era dovuto rivolgere e a risarcire il danno esistenziale..2.4 – La configurabilità del danno esistenziale si pone in evidente contrasto con l’orientamento, ormai consolidato dopo e per effetto della nota sentenza delle Sezioni Unite n. 27972 del 2008, la quale ha sancito il principio della inammissibilità nel nostro ordinamento dell’autonoma categoria di “danno esistenziale”, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che – ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato – essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione.
In definitiva, il danno c.d. esistenziale non costituisce voce autonomamente risarcibile, ma è solo un aspetto dei danni non patrimoniali di cui il giudice deve tenere conto nell’adeguare la liquidazione alle peculiarità del caso concreto in caso di lesione di un diritto fondamentale della persona.
Nelle ipotesi come quella di specie è appunto da escludere che sia stato leso un diritto fondamentale della persona.
.2.5 – Resta da esaminare se le spese per l’onorario del commercialista integrino il danno ingiusto, che è risarcibile.
Come riferito dalla sentenza impugnata, in sede di merito l’Agenzia delle Entrate aveva sostenuto che le spese per il professionista sono inerenti al diritto di difesa attribuito dalla legge al contribuente nell’ambito del fisiologico svolgimento del procedimento di accertamento della pretesa tributaria.
Questa impostazione non è totalmente condivisa dalla giurisprudenza della Corte, la quale ha ripetutamente affermato (confronta, per tutte, Cass. Sez. III, n. 10191 del 2007) che la risarcibilità delle spese per la difesa non può essere aprioristicamente esclusa. Tuttavia occorre pur sempre un comportamento della P.A. censurabile sotto gli indicati profili.
La questione non si pone tutte le volte in cui il contribuente abbia proposto ricorso avanti alla Commissione Tributaria, poiché sarà quel giudice a stabilire se e in quale misura le spese sostenute debbano essere rimborsate.
Essa si presenta quando il contribuente, anziché ricorrere in sede giurisdizionale, si sia affidato all’autotutela da parte della P.A..
La soluzione discende dai principi sopra ribaditi. La condanna della P.A. non può essere pronunciata sulla base della allegazione della mera illegittimità dell’atto, ma presuppone che sia accertata la violazione delle ripetutamente richiamate regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione.
La relativa valutazione non può che essere demandata al giudice di merito, il quale decide applicando i principi in tema di onere probatorio posti dall’art. 2697 c.c..
Quindi, se invoca l’art. 2043 c.c. per lamentare il ritardo con cui la P.A. ha esercitato l’autotutela, il contribuente, una volta che sia stata negata l’ingiustizia del provvedimento poi annullato, deve dimostrare il danno che tale ritardo gli ha cagionato e che invece non si sarebbe verificato ove il provvedimento della P.A. fosse stato tempestivo.
Ma il ricorso in esame non prospetta argomentazioni idonee al riguardo e, anzi, in esso si afferma esplicitamente che “il Tribunale di Patti non doveva stabilire se nella fattispecie sussistesse o meno una colpa sufficientemente grave, in relazione al tempo trascorso prima dell’annullamento dell’atto” per cui non occorrono ulteriori apprezzamenti di fatto da demandare al giudice di merito.
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