Tribunale di Reggio Emilia, Sentenza del 23/10/2012 n. 1774
a) …disciplina applicabile in caso di incidente avvenuto su strada pubblica…Trattasi di una materia che solo negli ultimi tempi ha avuto un deciso assestamento a seguito di un profondo revirement giurisprudenziale della Corte di Cassazione, sopraggiunto circa cinque anni orsono e peraltro immediatamente consolidatosi.Come noto, è infatti ormai stata definitivamente abbandonata la tradizionale ricostruzione di favore per la P.A., legata all’individuazione della responsabilità nel solo caso della teorica dell’insidia-trabocchetto riferita alla responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 c.c., essendo invece ora disciplinata la materia con il richiamo alla responsabilità custodiale ex art. 2051 c.c.E’, questo, un mutamento giurisprudenziale del tutto condiviso dalle Corti di merito ed ormai divenuto ius receptum, come anche dimostrato dalle numerose sentenze di primo grado edite in argomento.a1) Va innanzitutto ed in termini più generali osservato che, per anni, la giurisprudenza è stata propensa a creare, in favore della P.A. ed allorquando questa dismettesse i panni autoritativi, una sorta di diritto privato speciale.In sostanza, se da un lato si affermava il principio generale dell’estensione della normativa di diritto comune alla P.A., dall’altro lato si cercava di limitarne l’applicazione concreta alle sole norme idonee a sortirne effetti positivi per la stessa. Così, in molti casi (ex aliis, quelli della responsabilità precontrattuale, degli interessi moratori, delle condizioni generali di contratto, dell’esecuzione in forma specifica), si eludeva la normativa privatistica, adducendo argomenti sostanzialmente riconducibili alla presunzione di correttezza del comportamento della P.A. e all’insindacabilità delle sue determinazioni.Più recentemente, invece, la pressione delle correnti dottrinali più sensibili e un generale affinamento della cultura socio-giuridica, hanno decretato il crollo di questa sorta di statuto speciale codificato in favore dell’ente pubblico e hanno consentito la parallela affermazione del principio dell’assoggettamento di quest’ultimo alle regole del diritto comune. Argomento forte alla base di questo revirement, per quanto concerne la materia contrattuale, è la considerazione di come la P.A., allorquando decida di scegliere lo strumento contrattuale, deve, in ossequio al principio di uguaglianza, sottostare alle regole fissate per il contraente privato, senza privilegi di sorta.Più in generale, si è osservato che l’assoggettamento della P.A. alle regole del diritto privato, e la considerazione della medesima su un piano di parità con gli altri soggetti quando agisce iure privatorum nell’ambito dei comuni rapporti della vita di relazione, risponde ormai ad un’esigenza pienamente avvertita dalla coscienza sociale, ed è un riflesso di una crescita e di una progressiva maturazione della concezione dei rapporti intersoggettivi tra privato e P.A.Ora peraltro, dopo la modifica apportata dalla L. n. 15/2005, si esprime in questi termini anche l’articolo 1 comma 1 bis della L. n. 241/1990, a tenore del quale “la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”.Pertanto, sulla scia di tale nuova posizione giurisprudenziale poi avallata anche dal Legislatore, si è tra l’altro provveduto a ritenere applicabile alla parte pubblica la normativa:sul falsus procurator ex artt. 1398 e 1399 c.c. (cfr. Cass. n. 8876/2006, Cass. n. 195/2003, Cass. n. 2681/1993);sulla riduzione ex art. 1384 c.c. della clausola penale (cfr. Cass. n. 9366/1992, Cass. Sez. Un. n. 5261/1977);sulla simulazione (cfr. Cass. n. 9366/1992);sugli artt. 1358 e 359 c.c. (cfr. Cass. Sez. Un. n. 18450/2005) e più in generale sull’obbligo di buona fede nell’esecuzione dei rapporti contrattuali (giurisprudenza consolidatasi a partire da Cass. Sez. Un., n. 1540/1989; cfr. poi, tra le ultime, Cass. n. 85/2007, Cass. n. 2063/2003, Cass. Sez. Un. n. 14079/2002, Cass. n. 10932/2001);sull’arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c., pur residuando la necessità del riconoscimento, anche implicito, dell’utilitas (tra le tante, cfr. Cass. n. 6260/2006, Cass. n. 5069/2006, Cass. n. 12850/2005);sulle clausole vessatorie ex artt. 1341 e 1342 c.c. (giurisprudenza consolidatasi a partire da Cass. n. 4832/1984; cfr. poi, ex pluribus, Cass. n. 6043/1998);sull’esecuzione in forma specifica del preliminare ex art. 2932 c.c. (giurisprudenza consolidatasi a partire da Cass. Sez. Un. n. 1540/1989; cfr. poi, tra le ultime, Cass. n. 85/2007, Cass. n. 2063/2003);sulla responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c. (giurisprudenza consolidatasi dopo Cass. n 1675/1961; cfr., da ultimo e tra le tante, Cass. n. 4856/2007, Cass. n. 2525/2006);sulla responsabilità extracontrattuale, intesa come responsabilità diretta ex art. 2043 c.c. e non già responsabilità per fatto altrui dei dipendenti ex art. 2049 c.c., attesa la pacifica accettazione della teoria dell’immedesimazione organica (cfr., ex pluribus, Cass. n. 2426/2004, Cass. n. 10803/2000).Può allora oramai dirsi che sono soltanto due i settori ove si mantiene una netta differenziazione tra disciplina valevole in campo civilistico e disciplina valevole per la P.A.Uno è rimasto quello della forma dei contratti: in campo civilistico vale infatti il principio della libertà di forme, mentre per i contratti stipulati dalla P.A. occorre la forma scritta ad substantiam a pena di nullità ex artt. 16, 17 e 18 R.D. n. 2240/1923; con la conseguenza che è irrilevante l’esistenza di una mera deliberazione dell’organo collegiale dell’ente pubblico, che abbia stabilito il conferimento di un incarico, ove tale deliberazione non risulti trasfusa in un atto contrattuale (per la pacifica giurisprudenza, cfr., ex pluribus e da ultimo, Cass. n. 15296/2007, Cass. n. 13508/2007).L’altro è quello relativo all’impossibilità di utilizzare lo strumento dell’arbitrato irrituale, atteso che la portata e la natura dell’interesse pubblico cui deve in ogni caso ispirarsi l’amministrazione, ed in particolare le regole in tema di pubblicità e trasparenza che per il privato non hanno ragione d’essere, sarebbero travolti dall’affidare il componimento di una controversia a soggetti, arbitri irrituali, in difetto di qualsiasi procedimento legalmente predeterminato; e l’interesse pubblico verrebbe affidato all’operato di soggetti sottratti ad ogni controllo, con l’effetto di rendere poi evanescente anche l’eventuale individuazione di qualsiasi conseguente responsabilità (cfr. Cass. n. 8987/2009).E’ interessante notare che l’evoluzione in questione è stata caratterizzata non già da modifiche legislative o decisivi interventi della Corte Costituzionale, bensì essenzialmente da una diversa lettura operata nel tempo, dalla giurisprudenza, di norme rimaste immutate nel loro tenore testuale. E ciò è accaduto in ragione dell’affinamento della cultura socio-giuridica, del superamento di finalità socio-politiche ed economiche ormai non più rispondenti al prevalente sentire della coscienza sociale, della maturazione della concezione dei rapporti intersoggettivi tra privato e P.A. sopra indicati.E’ proprio in questo quadro che va vista la problematica afferente il regime di responsabilità della P.A. nel caso di sinistro avvenuto su strada pubblica, ciò che viene specificamente in rilievo nella presente controversia.a2) Relativamente a detta problematica, è noto che, secondo la tradizionale e più datata giurisprudenza, senza dubbio influenzata dall’esigenza, allora avvertita e sopra indicata, di garantire alla P.A. una posizione di privilegio nell’ambito dell’operatività del sistema civilistico, alla materia de qua non è applicabile l’art. 2051 c.c., dovendo invece riconoscersi, in favore dell’utente danneggiato dall’utilizzo di beni demaniali in ragione dell’omessa od insufficiente manutenzione delle strade pubbliche, l’applicabilità, unicamente ed esclusivamente, del generale principio di cui all’art. 2043 c.c.Alla stregua di tale orientamento, l’amministrazione incontra, nell’esercizio del suo potere discrezionale di vigilanza, controllo e manutenzione dei beni di natura demaniale, limiti derivanti dalle norme di legge o di regolamento, nonché dalle norme tecniche e da quelle di comune prudenza e diligenza, ed in particolare dalla norma primaria e fondamentale del neminem laedere ex art. 2043 c.c. In applicazione di tale norma, l’amministrazione è tenuta a far sì che il bene demaniale non sia fonte generatrice di un danno a terzi, a cagione della colposa violazione di specifici doveri di comportamento stabiliti da norme di legge o di regolamento, in modo tale da evitare che possa scaturirne danno per gli utenti che sullo stato di praticabilità delle strade ripongono ragionevole affidamento.In tale contesto, la giurisprudenza ha elaborato la figura dell’insidia o trabocchetto, quale situazione per l’utente di pericolo occulto, cioè non visibile e non prevedibile, e quindi non evitabile con l’ordinaria diligenza (tra le molteplici pronunce, cfr. le datate Cass. n. 2806/1966, Cass. n. 385/1969, Cass. n. 2244/1969, Cass. n. 3816/1969; più recentemente, Cass. n. 8244/1991, Cass. n. 8840/1991, Cass. n. 809/1995, Cass. n. 11069/1995, Cass. n. 12314/1998, Cass. n. 3991/1999, Cass. n. 366/2000, Cass. n. 7938/2001, Cass. n. 9092/2001, Cass. n. 16179/2001, Cass. n. 11250/2002, Cass. n. 14993/2002, Cass. n. 15710/2002, Cass. n. 16356/2002, Cass. n. 17152/2002, Cass. n. 1571/2004, Cass. n. 10132/2004, Cass. n. 10654/2004, Cass. n. 22592/2004).Tale figura, inizialmente intesa quale mero elemento sintomatico dell’attività colposa dell’amministrazione, è poi stata ricostruita come indice tassativo ed ineludibile della responsabilità dell’amministrazione (cfr. Cass. n 22592/2004), con onere della prova della sua esistenza a carico del danneggiato (cfr. Cass. n. 10654/2004, Cass. n. 11250/2002, Cass. n. 7938/2001).Successivamente, la giurisprudenza ha invece iniziato a ritenere concettualmente ed astrattamente configurabile, nei confronti della P.A., la responsabilità per danni da cose in custodia ex art. 2051 c.c. relativamente ai danneggiamenti subìti a seguito dell’utilizzo di strade pubbliche.Sulla scia di sempre più stringenti critiche dottrinali, si è infatti preso atto che il ritenere non applicabile alla P.A., per tali beni, la responsabilità da custodia, ma solo quella ex art. 2043 c.c., rappresenta un ingiustificato privilegio, e, di riflesso, un ingiustificato deteriore trattamento per gli utenti danneggiati; viceversa, l’applicazione dell’art. 2051 c.c. si presta ad una migliore salvaguardia e ad un miglior bilanciamento degli interessi in gioco in conformità ai principi dell’ordinamento giuridico e al sentire sociale.Tuttavia, in una prima fase, l’operatività del principio è stata sminuita dalla considerazione che la norma in parola deve ritenersi applicabile solo con riferimento a beni demaniali che consentono in concreto un controllo ed una vigilanza idonei ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo, e quindi non anche ai beni di notevole estensione e suscettibili di generalizzata utilizzazione. E ciò è stato argomentato sulla base dell’insegnamento della Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 156/1999, ha chiarito che non viola il dettato costituzionale l’interpretazione dell’art. 2051 c.c. che ne esclude l’applicabilità alla P.A. “allorché sul bene di sua proprietà non sia possibile – per la notevole estensione di esso e le modalità d’uso, diretto e generale, da parte di terzi – un continuo, efficace controllo, idoneo ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo per gli utenti”.Pertanto, con specifico riguardo alle strade, l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. è stata inizialmente esclusa con riferimento a quelle statali (cfr. Cass. n. 16179/2001) ed alle autostrade (cfr. Cass. n. 16356/2002, Cass. n. 16179/2001, Cass. n. 1505/2001, Cass. n. 12314/1998); mentre è stata viceversa ammessa relativamente alle strade di proprietà del Comune (cfr. Cass. n. 11446/2003, Cass. n. 10703/1999, Cass. n. 11749/1998) o della Provincia (cfr. Cass. n. 2020/1970), nonché alle pertinenze della sede stradale (cfr. Cass. n. 13087/2004) ed anche autostradale (cfr. Cass. n. 488/2003, Cass. n. 298/2003), alle scarpate (cfr. Cass. n. 10759/1998) ed alle zone limitrofe alla sede stradale di proprietà della P.A. (cfr. Cass. n. 17907/2003, Cass. n. 11366/2002).Ancora più recentemente, la Suprema Corte ha ulteriormente avanzato la linea di tutela dell’utilizzatore delle strade pubbliche, escludendo l’automatismo interpretativo secondo cui la ricorrenza delle caratteristiche della demanialità o patrimonialità del bene, dell’uso diretto della cosa e dell’estensione della medesima, sia da ritenersi idonea ad automaticamente escludere l’applicabilità dell’art. 2051 c.c., atteso che l’esclusione di tale responsabilità è da ricondurre solo all’oggettiva impossibilità dell’esecuzione del potere di controllo, il cui onere della prova ricade in capo alla stessa P.A. (cfr. Cass. n. 488/2003, Cass. n. 1144/2003, Cass. n. 6515/2004, Cass. n. 19653/2004, Cass. n. 3651/2006).A conforto di tali conclusioni, viene richiamata la stessa sentenza di Corte Cost. n. 156/1999, la quale ha effettivamente ritenuto che non è invocabile la responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., allorquando la P.A. non può esercitare sulla res un controllo “continuo, efficace ed idoneo ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo per gli utenti”; ma ha altresì chiarito come la “notevole estensione del bene” e “l’uso generale e diretto” da parte di terzi, costituiscono “meri indici” dell’impossibilità di un concreto esercizio del potere di controllo e vigilanza sul bene medesimo, e come quindi detta impossibilità non possa farsi discendere dalla mera natura demaniale del bene, dovendo essa se del caso riscontrarsi solamente all’esito “di un’indagine condotta dal giudice con riferimento al caso singolo, e secondo criteri di normalità”.Alla luce di questa nuova prospettiva, l’orientamento precedente che applicava l’art. 2043 c.c., viene addirittura espressamente definito dalla Cassazione “obsoleto” (Cass. n. 1691/2009) e “superato” (Cass. n. 21328/2010).a3) A tale ultimo insegnamento, nettamente maggioritario ed oramai addirittura pacifico nella giurisprudenza di legittimità successiva al 2005 (tra le più recenti, cfr. Cass. n. 22479/2011, Cass. n. 15389/2011, Cass. n. 6537/2011, Cass. n. 21329/2010, Cass. n. 21328/2010, Cass. n. 9456/2010, Cass. n. 24529/2009, Cass. n. 24419/2009, Cass. n. 20754/2009, Cass. n. 13350/2009, Cass. n. 11709/2009, Cass. n. 8157/2009, Cass. n. 1691/2009, Cass. n. 20427/2008, Cass. n. 15042/2008, Cass. n. 122449/2008, Cass. n. 11511/2008, Cass. n. 24617/2007, Cass. n. 17377/2007, Cass. n. 13077/2007, Cass. n. 7763/2007, Cass. n. 7403/2007, Cass. n. 25243/2006, Cass. n. 2308/2007, Cass. n. 15384/2006, Cass. n. 15383/2006, Cass. n. 10040/2006, Cass. n. 3651/2006), questo Tribunale intende dare continuità.Va infatti sottolineato che la norma dell’art. 2051 c.c., la quale si riferisce a beni sia mobili sia immobili, contempla quali due unici presupposti applicativi la custodia e la derivazione del danno dalla cosa, come del resto già da tempo posto in rilievo anche dalla migliore Dottrina (in giurisprudenza, fra le più recenti cfr. Cass. n. 20427/2008, Cass. n. 4279/2008 e Cass. n. 858/2008).Il primo presupposto, id est la custodia, consiste nel potere fattuale di effettiva disponibilità e controllo della cosa, e cioè in qualcosa di molto più ampio della nozione contrattuale di custodia (cfr. Cass. n. 4279/2008, Cass. n. 858/2008).Custodi sono infatti tutti i soggetti, pubblici o privati, che hanno il possesso o la detenzione della cosa (per tutte, cfr. Cass. n. 20317/2005); e custodi sono anzitutto i proprietari, ma anche conduttori (cfr. in particolare Cass. n. 24530/2009, Cass. n. 17733/2008 per la responsabilità ex art. 2051 del conduttore per i danni cagionati da parti dell’immobile entrate nella sua disponibilità), depositari, comodatari (cfr. Cass. n. 2422/2004) e usufruttuari (cfr. Cass. n. 12280/2004).Quale proprietaria delle strade pubbliche ex art. 16 lett. b L. n. 2248/1865 All. F, l’obbligo di relativa manutenzione in capo alla P.A. discende non solo da specifiche norme (art. 14 D.Lgs. n. 285/1992, cd. Codice della Strada; per le strade ed autostrade statali, art. 2 D.Lgs. n. 143/1994; per le strade urbane ed extraurbane, D.M. n. 223/1992; per le strade ferrate, art. 8 DPR n. 753/1980; per le strade comunali e provinciali, art. 28 L. n. 2248/1865 All. F; per i Comuni, art. 5 RD n. 2506/1923), ma anche dal generale obbligo di custodia, con conseguente operatività, nei confronti dell’ente, della presunzione di responsabilità ex art. 2051 c.c. in caso di omessa prevenzione (per tutte, sul dovere di custodia delle strade pubbliche da parte della P.A., cfr. da ultimo Cass. n. 9527/2010).Il dovere di custodia e la correlata responsabilità ex art. 2051 c.c. non vengono meno per la P.A. nemmeno laddove il bene demaniale-strada sia destinatario di lavori di manutenzione affidati a terzi.Infatti, in due recenti ed inequivocabili pronunce, la Suprema Corte ha chiarito che “il contratto d’appalto per la manutenzione delle strade di parte del territorio comunale, costituisce soltanto lo strumento tecnico-giuridico per la realizzazione in concreto del compito istituzionale, proprio dell’ente territoriale, di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade di sua proprietà ai sensi dell’art. 14 C.d.S. vigente, per cui deve ritenersi che l’esistenza di tale contratto di appalto non vale affatto ad escludere la responsabilità del Comune committente nei confronti degli utenti delle singole strade ai sensi dell’art. 2051 c.c.” (Cass. n. 1691/2009; conformi Cass. n. 11511/2009 e Cass. n. 7763/2007) e che “con riferimento all’appalto di opere pubbliche, gli specifici poteri di autorizzazione, controllo ed ingerenza della P.A. nella esecuzione dei lavori, con la facoltà, a mezzo del direttore, di disporre varianti e di sospendere i lavori stessi, ove potenzialmente dannosi per i terzi, escludono ogni esenzione da responsabilità per l’ente committente” (Cass. n. 4591/2008).Pertanto, nel caso in cui non vi sia stato il totale trasferimento all’appaltatore del potere di fatto sulla res ed il potere di fatto sulla cosa risulti quindi solo in parte trasferito a terzi, l’ente proprietario continua a rispondere come custode, atteso che deve sull’opera continuare ad esercitare la opportuna vigilanza ed i necessari controlli (cfr. Cass. n. 12425/2008, Cass. n. 20825/2006, Cass. n. 16670/2006, Cass. n. 15383/2006, Cass. n. 6515/2004).In particolare, con riguardo a lavori stradali eseguiti in appalto, causativi di sinistro per mancanza di cartelli di segnalazione e conseguente invisibilità dell’esatta ubicazione del pericolo, è configurabile la concorrente responsabilità tanto dell’appaltatore (in relazione al suo obbligo di custodire il cantiere, di apporre e mantenere efficiente la segnaletica, nonché di adottare tutte le cautele prescritte dall’art. 8 Codice della Strada) quanto dall’amministrazione committente (in relazione al suo dovere di vigilare sull’esecuzione delle opere date in concessione, ed altresì di emettere i provvedimenti necessari per la sicurezza del traffico).Ne consegue che, se l’area di cantiere è stata completamente enucleata, delimitata ed affidata all’esclusiva custodia dell’appaltatore, con assoluto divieto del traffico veicolare e pedonale, dei danni subiti all’interno di questa area non potrà che risponderne esclusivamente l’appaltatore, quale unico custode della stessa (per tutte, cfr. Cass. n. 15383/2006). Se invece l’area su cui vengono realizzati i lavori è ancora contestualmente adibita al traffico, ciò denota che l’ente titolare della strada ne ha conservato la custodia, sia pure insieme all’appaltatore, utilizzando la strada ai fini della circolazione (per tutte, cfr. Cass. n. 20825/2006): ne consegue che la responsabilità per danni subiti dall’utente a causa dei lavori in corso su detta strada, graverà su entrambi i soggetti, salvo poi l’eventuale azione di regresso dell’ente proprietario della strada nei confronti dell’appaltatore a norma dei comuni principi in tema di responsabilità solidale ex art. 2055 comma 2 c.c.Circa il secondo requisito per l’applicazione della responsabilità custodiale, e cioè il nesso causale rappresentato dalla derivazione del danno dalla cosa, si osserva che il danneggiato, secondo la regola generale in tema di responsabilità civile extracontrattuale, è tenuto a darne la prova (per tutte, circa la necessità di un nesso causale tra il danno e la res, proprio nella responsabilità della P.A. per sinistri stradali, cfr. la recente Cass. n. 20757/2010).Tale prova del nesso causale va peraltro ritenuta assolta con la dimostrazione che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta o assunta dalla cosa, in ragione di un processo in atto o di una situazione determinatasi, ancorché provocati da elementi esterni, che conferiscano cioè alla cosa quella che in giurisprudenza si è a volte indicata come “idoneità al nocumento”; mentre non è invece richiesta anche la prova dell’intrinseca dannosità o pericolosità della cosa medesima, qualità viceversa rilevante per la diversa fattispecie prevista dall’art. 2050 c.c. Tutte le cose, anche quelle normalmente innocue, sono infatti suscettibili di assumere ed esprimere potenzialità dannose, e ciò o per un loro dinamismo intrinseco, o per l’insorgenza esterna di agenti dannosi, risultando invece ormai superata la distinzione tra cose inerti e cose intrinsecamente dannose in quanto idonee a produrre lesione a persone e cose in virtù di connaturale forza dinamica o per l’effetto di concause umane o naturali (tra le tante cfr. Cass. n. 28811/2008, Cass. n. 25243/2006, Cass. n. 20825/2006, Cass. n. 3651/2006).La derivazione del danno dalla cosa può essere peraltro dal danneggiato offerta anche per presunzioni, giacché la prova del danno è di per sé indice della sussistenza di un risultato anomalo, e cioè dell’obiettiva deviazione dal modello di condotta improntato ad adeguata diligenza che avrebbe normalmente evitato il danno (da ultimo, cfr. Cass. n. 2308/2007 e Cass. n. 3651/2006).a4) La norma di cui all’art. 2051 c.c. non richiede, invero, altri e diversi presupposti applicativi, ulteriori rispetto alla prova da parte del danneggiato della sussistenza dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la cosa.In particolare, al danneggiato non può farsi carico della prova dell’insidia o trabocchetto, trattandosi di fattispecie estranee alla responsabilità ex art. 2051 c.c., che tantomeno possono pertanto considerarsi indici tassativi ai fini della configurabilità della responsabilità della P.A. (diversamente da quanto affermato, tra le ultime, da Cass. n. 22592/2004: cfr. in particolare Cass. n. 15383/2006 e Cass. n. 3651/2006): così facendo, infatti, si opererebbe un’interpretazione della norma contraria al suo tenore letterale e sostanziale, aggravando la posizione probatoria del danneggiato al fine di limitare le ipotesi di responsabilità della P.A. e creare un ingiustificato privilegio a suo favore.Né è necessaria, d’altro canto, la dimostrazione dell’insussistenza di impulsi causali autonomi ed estranei alla sfera di controllo propria del custode e quindi per il medesimo inevitabili, giacché, anche in ragione del principio di vicinanza della prova, è al custode che incombe provare il caso fortuito (cfr. Cass. n. 2651/2006, Cass. n. 2075/2002).La responsabilità ex art. 2051 c.c. integra quindi un’ipotesi di vera e propria responsabilità oggettiva, che trova piena giustificazione in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa attribuisce al custode (cfr. in particolare Cass. n. 15383/2006, rel. Segreto, che confuta convincentemente la tesi di Cass. n. 3651/2006, la quale aveva parlato di responsabilità colposa aggravata dall’inversione dell’onere della prova. Nella più recente giurisprudenza e sempre nel senso della responsabilità oggettiva, cfr. anche Cass. n. 8229/2010, Cass. n. 20943/2009, Cass. n. 20415/2009, Cass. n. 993/2009, Cass. n. 28811/2008, Cass. n. 26051/2008, Cass. n. 25029/2008, Cass. n. 20427/2008, Cass. n. 15042/2008, Cass. n. 4279/2008, Cass. n. 5308/2007, Cass. n. 5307/2007, Cass. n. 2563/2007).Non rileva allora la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza (per tutte, cfr. Cass. n. 2563/2007), in quanto la nozione di custodia non presuppone né implica uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario; e funzione della norma è, d’altro canto, quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa.Ne consegue che, in aderenza all’inequivoco disposto letterale della norma, tale tipo di responsabilità è esclusa solamente dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile, bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata, ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’imprevedibilità (rilevante non già ad escludere la colpa, bensì quale profilo oggettivo, al fine di accertare l’eccezionalità del fattore esterno, sicché anche un’utilizzazione estranea alla naturale destinazione della cosa diviene prevedibile dal custode laddove largamente diffusa in un determinato ambiente sociale) e dell’inevitabilità, a nulla viceversa rilevando che il danno risulti causato da anomalie o vizi insorti nella cosa prima dell’inizio del rapporto di custodia (ex multis e solo tra le più recenti, Cass. n. 26051/2008, Cass. n. 24755/2008, Cass. n. 20427/2008, Cass. n. 4279/2008).Icasticamente, è stato in dottrina osservato che rileva solo ‘il fatto della cosa’, non già ‘il fatto dell’uomo’, poiché la responsabilità si fonda sul mero rapporto di custodia, e solo lo stato di fatto, non già l’obbligo di custodia, può assumere rilievo nella fattispecie. Il profilo del comportamento del responsabile è di per sé estraneo alla struttura della normativa; né può esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per mancata diligenza nella custodia, giacché il solo limite previsto dall’articolo in esame è l’esistenza del caso fortuito, non l’assenza di colpa, tanto che la dottrina parla al riguardo di ‘rischio da custodia’, più che di ‘colpa nella custodia’. Ancorare la responsabilità ex art. 2051 c.c. alla presenza di una colpa del custode, e non già all’assenza di caso fortuito, sarebbe quindi un vero e proprio “errore di prospettiva”, come osservato da acuta Dottrina.Il fortuito va inteso nel senso più ampio comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato, purché detto fatto costituisca la causa esclusiva del danno (cfr. Cass. n. 25029/2008, Cass. n. 20427/2008, Cass. n. 12419/2008, Cass. n. 1279/2008, Cass. n. 4279/2008). Esso esclude così il nesso causale e non già la colpa, così come per un’autorevole dottrina il fortuito penalistico ex art. 45 c.p. esclude non la colpevolezza ma lo stesso nesso causale, essendo suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anziché alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.Infatti, la responsabilità si fonda non su un comportamento o un’attività del custode, ma su una relazione di custodia intercorrente tra questi e la cosa dannosa, ed il limite della responsabilità risiede nell’intervento di un fattore, id est il caso fortuito, che attiene non ad un comportamento del responsabile come nelle prove liberatorie degli artt. 2047, 2048, 2050 e 2054 c.c., ma alle modalità di causazione del danno.In altri termini, il profilo del comportamento del custode rimane estraneo alla struttura della fattispecie normativa di cui all’art. 2051 c.c., ed il fondamento della responsabilità è costituito dal ‘rischio da custodia’ che grava su colui che ha in custodia una cosa, per i danni dalla cosa stessa causati che non dipendano da caso fortuito (cfr. Cass. n. 584/2001): per l’applicazione della norma, insomma, è sufficiente che il danno sia cagionato dalla cosa, non necessariamente dal custode; e che vi sia una relazione di custodia tra il soggetto chiamato a rispondere e la cosa che ha prodotto il danno.In particolare, l’uso anomalo della cosa da parte del terzo e comunque la verificazione di una situazione dannosa non prevedibile, integrano gli estremi del fortuito solo qualora il danno si sia verificato nell’intervallo temporale in cui l’uso anomalo o la situazione dannosa si sono esteriorizzati, prima che la doverosa e diligente attività di sorveglianza e controllo li abbia rimossi o segnalati nel tempo strettamente necessario a provvedere (cfr. Cass. n. 25029/2008, Cass. n. 20427/2008, Cass. n. 15042/2008, Cass. n. 12449/2008). E’ stato così osservato che il caso fortuito è sussistente solo laddove vi sia un’assoluta estemporaneità della creazione della situazione di pericolo non eliminabile nell’immediatezza, od una situazione di pericolo derivante da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato delle cose.Occorre poi distinguere tra causa ignota e fatto di un terzo rimasto ignoto, atteso che se rimane ignota la causa del danno, pur essendo certo che esso deriva dalla cosa, la responsabilità è imputabile al custode; mentre laddove è certo che il fatto sia addebitabile ad un terzo, pur rimanendo ignoto chi egli sia, il custode può invocare il fortuito se ne sussistono gli estremi (cfr. Cass. n. 25029/2008, Cass. n. 2284/2006).Pertanto e con riferimento all’onere della prova, all’attore compete provare l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l’evento lesivo; il convenuto, per liberarsi, dovrà invece provare l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale (per tutte e solo tra le più recenti, cfr. Cass. n. 20427/2008, Cass. n. 4279/2008, Cass. n. 25243/2006, Cass. n. 24326/2006).La ratio dell’accollo del costo del danno, non è più la colpa, ma un criterio oggettivo, che tuttavia rimane fuori dalla norma. Ricorda una lucidissima sentenza della Suprema Corte, estensore Segreto, che tale criterio fu individuato nel deep pocket negli ordinamenti di common law e nella richesse oblige della tradizione francese; mentre nell’affinamento dottrinale successivo si è ritenuto che la ratio vada individuata nel principio dell’esposizione al pericolo o all’assunzione del rischio, ovvero nell’imputare il costo del danno al soggetto che aveva la possibilità della cost-benefit analysis, per cui tale soggetto deve sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente.In altre parole e da altra angolazione, al custode si imputa la responsabilità, giacché è al soggetto che trae profitto dalla cosa, secondo il brocardo cuius commoda eius et incomoda, che deve addebitarsi la responsabilità.Similmente, un’acuta e recente dottrina ritiene condivisibilmente che la norma in esame persegua “esigenze di giustizia distributiva al fine di incentivare da parte del custode tutte le misure che siano idonee a rendere la cosa innocua”.a5) Tuttavia, se la custodia presuppone il potere di governo della res, e cioè il potere di controllare la cosa, di modificare la situazione di pericolo creatasi, nonché di escludere qualsiasi terzo dall’ingerenza sulla cosa nel momento in cui si è prodotto il danno (per tutte, cfr. Cass. n. 20427/2008 e Cass. n. 7403/2007), certamente l’esistenza della custodia non può essere a priori esclusa in relazione alla natura demaniale del bene (cfr. Cass. n. 24529/2009, Cass. n. 20427/2008, Cass. n. 15042/2008, Cass. n. 11511/2008); ma neppure può essere ritenuta in ogni caso sussistente anche quando vi è l’oggettiva impossibilità di tale potere di controllo del bene, che è il presupposto necessario per la modifica della situazione di pericolo (cfr. Cass. n. 9546/2010, Cass. n. 24617/2007, Cass. n. 10040/2006).Se il potere di controllo è oggettivamente impossibile, non vi è custodia, e quindi non vi è responsabilità dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 2051 c.c. Ove infatti tale attività di controllo non sia oggettivamente possibile, non potrà invocarsi alcuna responsabilità della P.A., proprietaria del bene demaniale, a norma dell’art. 2051 c.c., per mancanza di un elemento costitutivo della custodia, id est la controllabilità della cosa, residuando solo, se ne ricorrono gli estremi, la responsabilità di cui all’art. 2043 c.c.Indici sintomatici dell’impossibilità del controllo del bene demaniale, sono la notevole estensione e l’uso generalizzato dello stesso da parte degli utenti; ma tali elementi non attestano in modo automatico l’impossibilità di custodia (cfr. Cass. n. 5669/2010, Cass. n. 12449/2008, Cass. n. 17377/2007).La possibilità o l’impossibilità di un continuo ed efficace controllo e di una costante vigilanza, dalle quali rispettivamente dipendono l’applicabilità o la non applicabilità dell’art. 2051 c.c., non si atteggiano peraltro univocamente in relazione a tutti i tipi di beni demaniali, ma vanno accertati in concreto da parte del giudice di merito (per tutte e da ultimo, cfr. Cass. n. 8157/2009).Segnatamente, per i beni del demanio stradale, la possibilità in concreto della custodia, nei termini sopra detti, va esaminata non solo in relazione all’estensione delle strade, ma anche alle loro caratteristiche, alla posizione, alle dotazioni, ai sistemi di assistenza che li connotano, agli strumenti che il progresso tecnologico di volta in volta appresta e che, in larga misura, condizionano anche le aspettative della generalità degli utenti (cfr. Cass. n. 1691/2009, Cass. n. 12449/2008).Per le autostrade, per loro natura destinate alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza, l’apprezzamento relativo alla effettiva possibilità del controllo alla stregua degli indicati parametri, non può che indurre a conclusioni in via generale affermative, e dunque a ravvisare la configurabilità di un rapporto di custodia per gli effetti di cui all’art. 2051 c.c. (cfr. Cass. n. 4495/2011, Cass. n. 8377/2009, Cass. n. 12449/2008, Cass. n. 7763/2007, Cass. n. 2308/2007).Figura sintomatica della possibilità dell’effettivo controllo di una strada del demanio stradale comunale, è che la stessa si trovi all’interno della perimetrazione del centro abitato (da ultimo, cfr. Cass. n. 21328/2010, Cass. n. 8377/2009, Cass. n. 1691/2009, Cass. n. 12449/2008). Infatti, la localizzazione della strada all’interno di tale perimetro, dotato di una serie di altre opere di urbanizzazione, e, più in generale, di pubblici servizi che direttamente o indirettamente sono sottoposti ad attività di controllo e vigilanza costante da parte del Comune, denotano la possibilità di un effettivo controllo e vigilanza della zona, per cui sarebbe arduo ritenere che eguale attività risulti oggettivamente impossibile in relazione al bene stradale.E’ stato allora condivisibilmente affermato dalla Suprema Corte che, ai fini del giudizio sulla possibilità di custodia, “le peculiarità vanno individuate non solo e non tanto nell’estensione territoriale del bene e nelle concrete possibilità di vigilanza su di esso e sul comportamento degli utenti, quanto piuttosto nella natura e nella tipologia delle cause che abbiano provocato il danno: secondo che esse siano intrinseche alla struttura del bene, sì da costituire fattori di rischio conosciuti o conoscibili a priori dal custode (quali, in materia di strade, l’usura o il dissesto del fondo stradale, la presenza di buche, la segnaletica contraddittoria o ingannevole, ecc.), o che si tratti invece di situazioni di pericolo estemporaneamente create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione (perdita d’olio ad opera del veicolo di passaggio; abbandono di vetri rotti, ferri arrugginiti, rifiuti tossici od altri agenti offensivi). Nel primo caso è agevole individuare la responsabilità ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., essendo il custode sicuramente obbligato a controllare lo stato della cosa e a mantenerla in condizioni ottimali di efficienza. Nel secondo caso l’emergere dell’agente dannoso può considerarsi fortuito, quanto meno finché non sia trascorso il tempo ragionevolmente sufficiente perché l’ente gestore acquisisca conoscenza del pericolo venutosi a creare e possa intervenire ad eliminarlo.”Così facendo, al custode vengono addossati “solo i rischi di cui egli possa essere chiamato a rispondere…sulla base dei doveri di sorveglianza e di manutenzione razionalmente esigibili, con riferimento a criteri di corretta e diligente gestione. Sotto il profilo sistematico la suddetta selezione dei rischi va compiuta, più che delimitando in astratto l’applicabilità dell’art. 2051 cod. civ. in relazione al carattere demaniale del bene, tramite una più ampia ed elastica applicazione della nozione di caso fortuito. Con riguardo ai beni demaniali, cioè, si presenterà presumibilmente più spesso l’occasione di qualificare come fortuito il fattore di pericolo creato occasionalmente da terzi, che abbia esplicato le sue potenzialità offensive prima che fosse ragionevolmente esigibile l’intervento riparatore dell’ente custode” (in questi esatti termini, Cass. n. 15042/2008).a6) Ove poi l’oggettiva impossibilità della custodia renda inapplicabile l’art. 2051 c.c., come detto, la tutela risarcitoria del danneggiato rimane esclusivamente affidata alla disciplina di cui all’art. 2043 c.c. (cfr. Cass. n. 23277/2010 e Cass. n. 15383/2006)Peraltro, relativamente a tale norma va specificato che la responsabilità dell’amministrazione per danni conseguenti all’utilizzo di bene demaniale da parte del soggetto danneggiato, non può essere limitata ai soli casi di insidia o trabocchetto, essendosi già chiarito che essi vanno intesi come meri elementi sintomatici della responsabilità pubblica, ma è ben possibile che la responsabilità stessa possa anche individuarsi nella singola fattispecie in un diverso comportamento colposo dell’amministrazione. Limitare aprioristicamente la responsabilità della P.A. per danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, alle sole ipotesi della presenza di insidia o trabocchetto, non trova alcuna base normativa nella lettera dell’art. 2043 c.c., e rappresenterebbe quindi un’indubbia posizione di privilegio per la parte pubblica (in questo senso, cfr. Cass. n. 23277/2010, Cass. n. 18204/2010 e Cass. n. 5445/2006).Una volta ritenuta l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 2043 c.c., alla stregua dei principi generali il riparto dell’onere probatorio vedrà gravare sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene demaniale, segnatamente della strada, ciò che è di per sé idoneo, in linea di principio, a configurare il comportamento colposo della P.A.; su quest’ultima ricadrà invece l’onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità, quali, nella teorica dell’insidia o trabocchetto, la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere, con l’ordinaria diligenza, la suddetta anomalia (cfr. Cass. n. 18204/2010, Cass. n. 20943/2009).In ogni caso, secondo il costante indirizzo di legittimità, il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato postulato dall’art. 112 c.p.c., non osta a che il Giudice renda una pronuncia in base ad una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante, id est l’art. 2051 c.c. in luogo dell’art. 2043 c.c., laddove la pronuncia si fondi su fatti ritualmente allegati e provati, essendovi solo il divieto di attribuire alla parte un bene della vita diverso da quello richiesto (tra le ultime, cfr. Cass. Sez. Un. n. 9147/2009, Cass. n. 16809/2008, Cass. n. 19331/2007, Cass. n. 17767/2007, Cass. n. 12402/2007, Cass. n. 2308/2007, Cass. n. 22479/2006, Cass. n. 16783/2006, Cass. n. 11039/2006, Cass. n. 8519/2006, Cass. n. 5442/2006).Specificamente, insegna la Suprema Corte che “non viola il principio della corrispondenza tra chiesto e giudicato il giudice che, investito di una domanda di risarcimento ex art. 2043 c.c., fondi l’accoglimento della domanda sulla responsabilità oggettiva ex art. 2051 c.c.” (testualmente, Cass. n. 12694/1999; negli stessi termini, si veda anche Cass. n. 45912/2008 e Cass. n. 5031/1998).Vi è invece mutatio libelli se viene dedotta l’esistenza di un’insidia-trabocchetto e solo dopo lo spirare delle preclusioni assertive la responsabilità custodiale, posto che le due azioni presuppongono, sul piano eziologico e probatorio, accertamenti diversi (Cass. n. 20328/2006, Cass. n. 15382/2006, Cass. n. 12329/2004, Cass. n. 10893/2001, Cass. n. 7938/2001).a7) Sia nell’ipotesi che la fattispecie rientri nell’art. 2043 c.c., sia che rientri nell’art. 2051 c.c., per la giurisprudenza consolidatasi dall’inizio degli anni Duemila (cfr. in particolare l’accuratamente motivata Cass. n. 17152/2002, che ha superato il precedente orientamento di Cass. n. 16179/2001, formulato sulla scia di Corte Cost. n. 156/1999) è rilevante l’eventuale comportamento colposo del danneggiato, poiché esso incide sul nesso causale.E’ infatti applicabile alla fattispecie de qua la regola posta dall’art. 1227 comma 1 c.c., che prevede la riduzione del risarcimento in presenza della colpa del danneggiato e proporzionalmente all’incidenza causale di tale colpa sull’evento dannoso (ex pluribus, cfr. Cass. n. 21328/2010, Cass. n. 9546/2010, Cass. n. 5669/2010, Cass. n. 1002/2010, Cass. n. 22807/2009, Cass. n. 11227/2008).Ciò avviene, secondo la più recente ed accorta impostazione dogmatica, non tanto in virtù del principio di autoresponsabilità postulato dalla tradizionale dottrina per imporre ai potenziali danneggiati doveri di attenzione e diligenza e per indurli a contribuire, insieme con gli eventuali responsabili, alla prevenzione dei danni che potrebbero colpirli; quanto piuttosto per il citato principio di causalità, per cui al danneggiante non può farsi carico di quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile (cfr. Cass. n. 15779/2006 e Cass. n. 15383/2006).La regola di cui all’art. 1227 c.c. va allora inquadrata esclusivamente nell’ambito del rapporto causale ed è espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno risarcibile quello che ciascuno procura a sè stesso (per tutte, cfr. Cass. n. 6988/2003); e la colpa del creditore-danneggiato, stante la genericità dell’art. 1227 comma 1 c.c. sul punto, sussiste non solo in ipotesi di violazione da parte del creditore-danneggiato di un obbligo giuridico, ma anche nella violazione della norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo della colpa generica.Così inquadrato sotto il profilo eziologico il comportamento colposo del danneggiato-utente del bene demaniale, si evidenzia che il concorso di colpa è pacificamente rilevabile d’ufficio, sul presupposto che non si tratta di un’eccezione in senso stretto, ma di una semplice difesa, la quale deve essere esaminata anche d’ufficio dal giudice, attraverso le opportune indagini sull’eventuale sussistenza dell’incidenza causale dell’accertata negligenza nella produzione dell’evento dannoso, indipendentemente dalle argomentazioni e richieste della parte, sempre ovviamente che risultino prospettati gli elementi di fatto su cui si fonda il comportamento colposo del danneggiato (cfr. Cass. n. 23734/2009, Cass. n. 24080/2008, Cass. n. 14853/2007, Cass. n. 15383/2006).Se il comportamento colposo del danneggiato rileva a livello concorsuale nella produzione del danno, per eguale ed addirittura maggiore ragione, il comportamento commissivo o omissivo colposo del danneggiato, che sia sufficiente da solo a determinare l’evento, esclude il rapporto di causalità delle cause precedenti.Invero, l’interruzione del nesso di causalità può essere anche l’effetto del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato, quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, ad esempio nel caso di uso del tutto improprio della res o comunque al di fuori delle regole prescritte, sì da privare dell’efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell’autore dell’illecito (cfr. Cass. n. 24149/2010, Cass. n. 9546/2010, Cass. n. 8229/2010, Cass. n. 993/2009, Cass. n. 28811/2008, Cass. n. 25029/2008, Cass. n. 24804/2008, Cass. n. 4279/2008).In questa ottica, la diligenza del comportamento dell’utente del bene demaniale, e segnatamente della strada demaniale, va valutata anche in relazione all’affidamento che era ragionevole porre nell’utilizzo ordinario di quello specifico bene demaniale, con riguardo alle specifiche condizioni di luogo e di tempo: in questi termini il colpevole comportamento del danneggiato modula la corretta applicazione del principio della causalità adeguata ai fini del nesso causale, o escludendolo o configurando un apporto concorrente.La diligenza che è richiesta al danneggiato nell’uso del bene demaniale, costituito nella specie da strada, sarà poi diversa a seconda che si tratti di una strada campestre o del corso principale della città, pur facendo capo entrambe al demanio stradale dello stesso Comune, proprio perché il danneggiato fa affidamento su una diversa attività di controllo e custodia in relazione ai due tipi di strada dello stesso demanio.Infine, va evidenziato come non vi sia nesso causale tra la res e l’evento dannoso, allorquando la cosa svolge il solo ruolo di occasione dell’evento ed è svilita a mero tramite del danno provocato da una causa ad essa estranea, quale anche il comportamento del danneggiato, atteso che in tale caso si verifica il cosiddetto fortuito incidentale, idoneo ad assorbire il collegamento causale tra la cosa ed il danno (cfr. Cass. n. 20317/2005, Cass. n. 2430/2004, Cass. n. 16527/2003, Cass. n. 12219/2003).Detto fortuito incidentale, peraltro, in dottrina è stato distinto dal fortuito autonomo, ciò che si ha quando il danno è direttamente cagionato da un fattore indipendente dalla custodia, che recide il nesso causale rispetto a quest’ultima; e dal fortuito concorrente, irrilevante ai fini della responsabilità custodiale.a8) Può quindi dirsi che, sulla base di tutto quanto sopra, lo stato dell’arte in materia è rappresentato dai seguenti princìpi di diritto:
- La responsabilità ex art. 2051 c.c. per i danni cagionati da cose in custodia è applicabile anche nell’ipotesi di beni demaniali in effettiva custodia della P.A. Tale forma di responsabilità ha carattere oggettivo, e, perché possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza. La responsabilità è allora esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’oggettiva imprevedibilità ed inevitabilità e che può essere costituito anche dal fatto del terzo o dello stesso danneggiante.
- La presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia, di cui all’art. 2051 c.c., non si applica agli enti pubblici per danni subiti dagli utenti di beni demaniali ogni qual volta sul bene demaniale, per le sue caratteristiche, non sia possibile esercitare la custodia, intesa quale potere di fatto sulla stessa. L’estensione del bene demaniale e l’utilizzazione generale e diretta dello stesso da parte di terzi, sono solo figure sintomatiche dell’impossibilità della custodia da parte della P.A., e come tali vanno comunque sottoposte al vaglio in concreto da parte del giudice di merito. Elementi sintomatici della possibilità di custodia sono invece il posizionamento della strada nel perimetro urbano nonché la qualificazione di autostrada, per natura destinata alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza.
- Ove non sia applicabile la disciplina della responsabilità ex art. 2051 c.c., per l’impossibilità in concreto dell’effettiva custodia del bene demaniale, l’ente pubblico risponde dei danni da detti beni, subiti dall’utente, secondo la regola generale dettata dall’art. 2043 c.c., che non prevede alcuna limitazione della responsabilità dell’amministrazione per comportamento colposo alle sole ipotesi di insidia o trabocchetto. In questo caso graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene demaniale della strada, fatto di per sé idoneo, in linea di principio, a configurare il comportamento colposo della P.A., sulla quale ricade invece l’onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità, quali ad esempio la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia.
- Tanto in ipotesi di responsabilità della P.A. ex art. 2051 c.c., quanto in ipotesi di responsabilità della stessa ex art. 2043 c.c., il comportamento colposo del soggetto danneggiato nell’uso di bene demaniale, che sussiste anche quando egli abbia usato il bene demaniale senza la normale diligenza o con affidamento soggettivo anomalo, può escludere la responsabilità dell’amministrazione, se tale comportamento è idoneo ad interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno e il danno stesso; e può integrare altrimenti un concorso di colpa ai sensi dell’art. 1227 comma 1 c.c., con conseguente diminuzione della responsabilità del danneggiante in proporzione all’incidenza causale del comportamento del danneggiato.
- In ogni caso, il principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato postulato dall’art. 112 c.p.c., non osta a che il Giudice renda una pronuncia in base ad una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante, id est l’art. 2051 c.c. in luogo dell’art. 2043 c.c., laddove la pronuncia si fondi su fatti ritualmente allegati e provati, essendovi solo il divieto di attribuire alla parte un bene della vita diverso da quello richiesto.